Nel bimillenario della sua morte, il poeta romano trova la riabilitazione e la revoca delle sue condanne grazie al riconoscimento dei suoi concittadini e del Comune di Roma.

Esattamente duemila anni fa, in una data non meglio precisata dalle fonti, il poeta Publio Ovidio Nasone moriva, solo e afflitto, a Tomi (attuale Costanza, in Romania) all’epoca un villaggio portuale sulle rive del Mar Nero, in quelle terre che i Romani chiamavano Ponto. Lui, cantore disilluso di un amore disincarnato e disincantato, fine esteta, cantore delle Metamorfosi e dei Fasti, si ritrovò a morire esule, in un piccolo centro, lontanissimo dalla natia Sulmona, circondato (stando alla sua stessa testimonianza) da rozzi barbari che non comprendevano neanche una parola del suo latino. Ovidio, relegato nell’angolo più remoto del neonato Impero Romano, non poté che ripensare con rammarico ai grandi amori cantati nei suoi carmi, ai consigli di seduzione che aveva offerto ai giovani romani nell’Ars Amatoria e agli unguenti profumati che aveva consigliato alle donne patrizie per corteggiare i rampolli delle più nobili famiglie nei Medicamina faciei feminae. Ma soprattutto Ovidio, durante la stesura dei Tristia, quei versi che raccolgono i suoi lamenti nostalgici e descrivono la sua triste condizione nel Ponto, ripensò alla bella vita che fu, quando a Roma vantava di poter essere uno dei fiori all’occhiello dei Circoli di Messalla Corvino e di Gaio Clinio Mecenate, le più prestigiose élite culturali del Principato Augusteo.

Ma per quale motivo Ovidio, illustre poeta, cadde in uno stato di disgrazia così atroce?
La risposta sembra offrircela lui stesso, proprio nei Tristia:

“Perdiderint cum me duo crimina, carmen et error alterius facti culpa silenda mihi.” “Due crimini mi hanno condannato; un carme e un errore:
di questo dovrò tacere quale sia stata la mia colpa.”
(Ovidio, Tristia 2, 1,vv.207-208.)

A cosa si riferisce Ovidio, in questi due versi carichi di umanità e pregni di sincero dolore?
Il poeta stesso sembra rimanere criptico ed ermetico a riguardo: come accade molto spesso, quando le fonti mantengono il silenzio, sono gli storici a doversi dar da fare per ricostruire il tutto nel modo più verosimile possibile.

Tutto ciò che noi sappiamo, se escludiamo questi versi, è che fu il princeps Ottaviano Augusto in persona a provvedere all’esilio. Alla base della condanna, ne deduciamo, ci fu sicuramente un dissapore molto serio tra il poeta e l’Imperatore, uno screzio talmente grave da non poter permettere ad Augusto di optare per una pena più leggera: nel cacciare Ovidio da Roma e dai confini Italici, Ottaviano scelse la relegatio ad insulam, un esilio che, a differenza della deportatio, prevedeva solo l’allontanamento dell’individuo, senza che tuttavia egli perdesse la cittadinanza romana e le sue proprietà.

Il carme di cui parla il poeta è molto probabilmente l’Ars Amatoria, il poemetto in tre libri che forniva agli uomini e alle donne di tutta Roma i consigli più raffinati per “rimorchiare”. Nulla esclude tuttavia che il carme a cui accenna Ovidio stesso non siano in realtà i tre libri degli Amores, nei quali Ovidio si vantava delle sue avventure piccanti tra un’amante e l’altra. In ogni caso, la letteratura di Ovidio, nonostante avesse riscosso un certo successo e attirato il plauso del pubblico aristocratico romano, risultò scabrosa, oscena: prevedeva una visione dell’amore spensierata e superficiale, sdoganava il tradimento e l’infedeltà coniugale (quasi giustificandoli) e sembrava esaltare solo gli aspetti più carnali, più erotici dell’amore: tutto questo era inaccettabile agli occhi di un Augusto sempre più intenzionato a varare una politica volta a tutelare i valori morali della famiglia, emanando leggi che punissero l’adulterio e lo stupro e sanzionando con pene pecuniarie gli scapoli (oggi diremmo “i single”) che raggiunta una certa età non si fossero ancora sposati (la cosiddetta “tassa sul celibato” a cui si ispirò anche Mussolini). Seppur vero che la visione letteraria ovidiana strideva con la propaganda morale augustea, possiamo dire che questo carme bastò, da solo, a far infliggere su Ovidio una pena così tremenda?
Qui entra in gioco l’errore, forse il motivo più autentico per cui il poeta di Sulmona si guadagnò l’esilio nel Ponto: l’ipotesi più probabile è che Ovidio fosse uno dei tanti amanti con cui Giulia Maggiore, figlia di Augusto, aveva intrattenuto una relazione clandestina alle spalle del marito Tiberio (in barba alle leggi morali emanate dal padre). Plausibile è anche la teoria secondo la quale Ovidio avesse coperto e favorito la relazione adulterina tra Giulia Minore, nipote dell’Imperatore e moglie del console Lucio Emilio Paolo, e Giulio Decimo Siliano. Oltre a questi due “scandali a luci rosse”, come li definiremmo oggi, non sono da escludere anche altre numerose supposizioni avanzate dagli storici in merito al famoso “error” di cui parla Ovidio nei Tristia: secondo alcuni Ovidio era coinvolto in una congiura ai danni di Augusto, mentre secondo altri era venuto a conoscenza di dettagli privati del princeps e della moglie Livia.

Quel che è certo è che gli ultimi nove anni di vita Ovidio li trascorse lontano da Roma e dalla sua Sulmona: relegato nel Ponto nell’8 d.C., nonostante le dozzine di lettere di scuse e di suppliche inviate ad Augusto, il poeta non riuscì mai a tornare in patria, morendo da solo, lontano da casa, nel 17 d.C. La sua unica consolazione, durante il confinamento nella terra barbara, rimarrà la letteratura; durante l’esilio infatti, Ovidio scriverà, oltre ai Tristia e alle lettere destinate ai suoi familiari e all’Imperatore, tre brevi poemetti (Ibis, Phaenomena e Haieleutica) che non godranno però della stessa fortuna che già vantarono l’Ars Amatoria e le Metamorfosi.

La città di Sulmona è, praticamente da sempre, affettuosamente legata alla figura di Ovidio, a cui sono dedicate vie, piazze, ristoranti, statue, scuole, bar e addirittura un certamen, una gara di traduzione nella quale gli studenti del Liceo Classico si confrontano in una sfida a colpi di vocabolario in una traduzione di passi scelti delle opere del poeta. Nel bimillenario della sua morte, la città abruzzese non poteva esimersi dal conferire i dovuti omaggi a quello che senza dubbio è il suo più illustre cittadino: con precisione certosina e grazie a un lauto finanziamento europeo, il comune di Sulmona ha allestito un ricco programma di eventi di rilevanza nazionale e internazionale. Il Bimillenario Ovidiano racchiude le migliori proposte scientifiche e culturali, incentrate nello specifico della produzione ovidiana. Letteratura, arte, musica, cinema, teatro, enogastronomia, editoria, mostre, musica, fotografia, convegni. Tanti gli aspetti di varia natura inseriti in una serie di iniziative che valorizzano luoghi, eccellenze, beni materiali e immateriali da sempre cari al poeta latino.

Ma tra le proposte più affascinanti, spicca quella della revoca della relegatio: Ovidio, dopo due millenni, sarebbe finalmente assolto dalle sue colpe. Infatti l’assise civica capitolina si prepara a revocare il decreto emesso dall’imperatore Augusto nell’ormai lontanissimo primo secolo dopo Cristo. Il Comune di Roma ha deciso in questo modo di omaggiare il poeta sulmonese nell’anno del Bimillenario dalla morte. La proposta di “liberare” Ovidio dall’esilio era stata già avanzata in passato al Rotary Club di Sulmona, dal professore Giuseppe Martocchia, docente di Lettere nel Liceo Classico Ovidio (appunto) dal professore Raffaele Giannantonio e dalla professoressa Palma Crea Cappuccilli, anche lei docente nel Liceo Classico Ovidio. Nel 2012 anche il Consiglio comunale di Sulmona deliberò all’unanimità la richiesta di revoca della condanna di Ovidio, inviando la delibera al Consiglio comunale capitolino, che ha deciso di iniziare un lungo processo burocratico che avrà come fine la revoca della relegatio del poeta sulmonese… in un’occasione non casuale!

Ma come possono il comune di Sulmona e l’assemblea giudiziale del Comune di Roma porsi al di sopra di una sentenza emanata dallo stesso Augusto?
Semplice: bisogna dimostrare l’invalidità della condanna. In primo luogo, qualora l’accusa che verte su Ovidio sia quella di aver partecipato alla congiura ordita contro Augusto, si potrebbe allora accusare l’Imperatore di non aver esplicitato mai la motivazione della sanzione inflitta al poeta: avrebbe dovuto ammettere che alla congiura avevano partecipato anche i suoi strettissimi congiunti. Se veramente Ovidio avesse partecipato all’organizzazione di un attentato ad Augusto, avrebbe potuto mai la pena essere tanto mite? E gli altri congiurati chi sarebbero? In questo caso l’accusa si fonderebbe solo su ipotesi prive di testimonianze, che scagionerebbero Ovidio da ogni accusa. Qualora l’accusa sia invece quella di aver partecipato, direttamente o non, alle tresche amorose delle due Giulie, la pena risulterebbe illegittima, in quanto sembrerebbe che Ovidio non abbia potuto godere di un processo regolare, con tanto di difesa e accusa. Se infine la colpa del poeta sulmonese è stata quella di decantare un amore senza troppi vincoli, condannare Ovidio per questo motivo risulterebbe ridicolo: se i Romani, fregandosene delle leggi di Augusto, avevano abbandonato l’antica severità dei costumi, dandosi alla bella vita, se i matrimoni erano in calo e non si facevano più figli, di certo non era colpa di Ovidio.
E soprattutto, dettaglio da non prendere sottogamba, la condanna alla relegatio, secondo il diritto romano, veniva comminata a conclusione di un processo pubblico e poi ratificata dal Senato. Nel caso di Ovidio, essendo Augusto imperatore, la decisione fu soltanto sua.
Ora come ora, bisogna solo attendere che il decreto capitolino revochi ufficialmente la relegatio del poeta elegiaco latino.

Chissà se Ovidio, dopo due mila anni, non stia sussurrando dall’Oltretomba: “Meglio tardi che mai!”

Michele Porcaro