Jan 152016
 

La Cucina Italiana SHARE Non solo lasagne: le due città si contendono anche la primogenitura di uno dei condimenti più amati. Che sono in realtà due piatti molto diversi. Anche da quei “spaghetti bolognese” così diffusi sulle tavole di tutto il mondoragu-bolognese-o-napoletano
È uno dei simboli della nostra cucina, al punto da essere scimmiottato all’estero con piatti a dir poco discutibili come gli “spaghetti alla bolognese” o perfino con le polpette. Ma il ragù è il ragù, ed è tutt’altra cosa. Una vera e propria arte, una preparazione paziente che, da Bologna a Napoli, si è sviluppata per colmare un bisogno secolare: quello di far rendere al meglio, dal punto di vista del gusto ma anche nutrizionale, la poca carne che i ceti poveri potevano permettersi. Ma quanti sono, come nascono e come si preparano i tanti ragù d’Italia?
Termine francese
Per l’origine del termine, però, occorre andare in Francia. Dove per “ragout” un tempo si intendevano tutte quelle preparazioni in cui la carne, il pesce o le verdure venivano ridotti in pezzettini e poi cotti in umido. Non è chiaro quando il termine sbarcò in Italia, ma certo è che il “ragù” era ben conosciuto dalle mense aristocratiche, dal Rinascimento in poi, in genere come secondo piatto e solo successivamente utilizzato per arricchire la pasta. E poi passato dalle tavole ricche a quelle più popolari. Il termine poi è stato esteso a tutti i “sughi di carne” utilizzati in giro per l’Italia, come quelli in uso ad esempio in Umbria, in Puglia o in Sardegna.
La ricetta della Dotta
Ma, come per la lasagna, sono Bologna e Napoli le due città che sul ragù hanno più da dire. Secondo la studiosa Lynne Rossetto Kasper, autrice di The italian country table, le origini del ragù alla bolognese risalirebbero proprio al XVI secolo, nelle ricche corti delle famiglie nobili. Appare arduo individuare una ricetta “originale” del ragù, che però nel 1982 è stata depositata dalla delegazione bolognese dell’Accademia italiana della cucina presso la Camera di commercio di Bologna. Gli ingredienti per questa ricetta sono i seguenti: polpa di manzo (cartella o pancia o fesone di spalla o fusello) macinata grossa, pancetta di maiale, carota, sedano, cipolla, passata di pomodoro o pelati, vino bianco secco, latte intero, poco brodo, olio extravergine d’oliva o burro, sale, pepe, e mezzo bicchiere di panna liquida da montare (facoltativa). La pancetta va soffritta dolcemente assieme a carote, sedano e cipolla, poi si unisce la carne macinata e si bagna con il vino bianco. Poi si unisce la passata di pomodoro: la cottura, da manuale, dura 2 ore, utilizzando il brodo di tanto in tanto e un goccio di latte per smorzare l’acidità del pomodoro. Alla fine, dopo aver aggiustato di sale e pepe, secondo l’uso bolognese si usa aggiungere la panna se si intende condire delle paste secche. Mentre è tassativamente vietata per le tagliatelle.
Gli Inglesi ne vanno pazzi
La prima testimonianza dell’utilizzo del ragù nella pasta e non come secondo piatto è di Pellegrino Artusi: il successo su scala nazionale fu impetuoso. Al punto che, durante il Fascismo, l’autarchia lessicale del regime impose l’utilizzo di un termine ancor più italianizzato, “ragutto”. Mentre, all’estero, gli emigrati italiani resero gli inesistenti “spaghetti alla bolognese”, parenti lontanissimi del nostro ragù alla bolognese, uno dei simboli della cucina italiana. In America e non solo. Al punto che, secondo Henry Dimbleby, cofondatore di una catena di fast food inglese, la pasta alla bolognese “è adesso il secondo piatto più diffuso servito nelle case della Gran Bretagna”.
Dalla Senna al Vesuvio
Altrettanto antiche le origini del ragù napoletano (qui la ricetta in versione semplificata). I primi documenti che ne attestano l’esistenza risalgono al XVIII secolo, ed è ancora bianco e senza pomodoro: il termine “ragù” compare già nel Cuoco galante (1773) di Vincenzo Corrado, così come nella Cucina teorica pratica di Ippolito Cavalcanti. La prima testimonianza del ragù rosso, con il pomodoro, risale invece all’opera di Carlo Dal Bono Usi e costumi di Napoli (1857): “Talvolta poi dopo il formaggio si tingono di color purpureo o paonazzo, quando cioè il tavernaio del sugo di pomodoro o del ragù (specie di stufato) copre, quasi rugiada di fiori, la polvere del formaggio”. Fu quindi con ogni probabilità nella Napoli del Settecento – quando la Francia era di gran moda, soprattutto a corte – che il termine francese “ragout” venne importato in Italia, con la tipiche deformazione visibile in altri termini partenopei come “sartù”, “gattò”, “crocché” o “puré”.
Tracchie, cotica e braciole
Anche qui, individuare una versione “originale” è impresa ardua. Originariamente il ragù era il piatto della domenica, che faceva da primo sulla pasta e poi da secondo. I tipi di carne impiegati nella preparazione del ragù sono numerosi: generalmente viene utilizzato un misto di carne di manzo, di solito i tagli anteriori, quelli meno pregiati e che necessitano di una lunghissima cottura. Ma ci sono anche le spuntature di maiale (“tracchie” o “tracchiulelle”), l’involtino di cotenna (cotica), la polpetta e la braciola napoletana, quest’ultima simile a un involtino ripieno di aglio, pinoli, uvetta, prezzemolo e pecorino romano. Tradizionalmente la preparazione del ragù inizia di buon mattino: la cottura avviene in maniera molto lenta, fino ad ottenere una salsa molto densa e cremosa.
Parola di Eduardo
Roba da portieri più che da massaie, quasi un “lavoro parallelo”. Tutt’altro che “carne c’ ‘a pummarola”, come sentenziava Eduardo De Filippo che al ragù dedicò perfino una poesia, ‘O ‘rraù. Tradizionalmente il ragù viene cotto in un tegame di terracotta, dove – in estrema sintesi – si fanno rosolare nell’olio extravergine d’oliva le cipolle, il gamboncello di vitello, le braciole napoletane, le spuntature di maiale, le salsicce punta di coltello (ma non in tutte le versioni) e le cotiche. Si sfuma con del vino bianco, si aggiunge il pomodoro concentrato (ma alcune ricette non lo prevedono) e poi la passata. Si sala e si porta all’ebollizione. A questo punto inizia il “rito”: il fuoco va abbassato, e la salsa deve “pippiare” o “pappuliare”, cioè bollire molto lentamente per circa 6 ore. Le carni di maiale, una volta cotte, vanno sollevate dalla salsa, mentre le altre dovranno cuocere nel tegame fino a cottura ultimata. A questo punto la pasta è pronta per essere condita assieme a parmigiano grattugiato e basilico fresco. Mentre i “pezzi grossi” diventeranno il secondo piatto: da quest’equivoco, forse, sono nati gli spaghetti con le polpette così diffusi Oltreoceano…
Dall’Umbria alla Sardegna
Rispetto al ragù bolognese, quindi, la carne non è macinata ma va cotta a pezzi grossi. Una tendenza presente anche in molti altri “ragù” e “sughi di carne” in giro per l’Italia. In Umbria, ad esempio, dove è preparato con carni di vitello e di maiale e salsiccia; o quello lucano (“ndrupp’c”) in cui compare il “salame pezzente”, a base di frattaglie di carne suina; o quello barese, in cui compare anche l’agnello. O il ragù sardo, in cui rientra in gioco la carne macinata…

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