Avr 052022
 

Le 22 Avril à 15h au 35 ter rue Gabriel Peri
Réservations : litalieatoulouse@orange.fr

 

Eduardo De Filippo, 1900-1984 di Enzo Biagi

 

Quando è morto, gli hanno fatto un monumento di parole. Forse troppe, per uno che si faceva notare soprattutto per i lunghi silenzi e inventava strampalate figure chiuse in un tenace mutismo, che per esprimersi senza troppi discorsi ricorrevano ai botti.

Eduardo aveva il pudore dei sentimenti e odiava gli sproloqui, i punti esclamativi, gli effettacci e i lustrini: le sue ultime recite sembravano sacre rappresentazioni.

Ritrovo nei miei taccuini certi momenti dei nostri incontri; gli era più facile concedere un invito a pranzo che un’intervista. Ma le cose che diceva erano illuminanti.

 

La prima impressione di una platea: «Ero piccolo, sbigottito: uno splendore abbagliante. Mi trovai là da un momento all’altro: lo spettacolo è luce, è sorpresa. Non finirà mai. Fin quando ci sarà un filo d’erba sulla terra, ce ne sarà uno finto sul palcoscenico. Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano male».

Spiegava il segreto della sua arte: «Io osservo, osservo continuamente. Il teatro porta alla vita e la vita al teatro. L’umanità, attraverso i fatti che evolvono continuamente, ci fornisce modelli che ci meravigliano sempre: nuovi, pazzi, imprevedibili, che ci danno poi i personaggi. E le mie commedie sono tragedie anche quando fanno ridere».

La sua idea dell’attore: «L’uomo, qualche volta, è come le scimmie, che hanno il gusto dell’imitazione. Le hanno viste che si mettevano addosso rafia e fiori e ballavano. Ma se è vanitoso, è solo uno che ha la faccia tosta di salire in alto, su delle assi inchiodate, per farsi vedere. L’artista è un’altra cosa».

I tempi dell’avanspettacolo: «Scrivevamo i nostri copioni in camerino, negli intervalli, e la testa rimbombava dei dialoghi e dei sospiri dei primi film sonori. I napoletani sono esigenti: ogni settimana bisognava cambiare repertorio.

E sono terribili: ti capiscono prima che parli e devi stare molto attento per poterli imbrogliare. Anche Natale in casa Cupiello era un atto unico, bellissimo. Avevamo in cartellone Sik-Sik l’artefice magico, e per rappresentarlo erano assolutamente indispensabili un colombo e una gallina. Una notte, spinti dall’appetito, ci rivolgemmo a un trattore perché ci cucinasse i due cari compagni di lavoro. Li mangiammo, ma con molta pena».

Il successo: «Nel 1942, con i miei fratelli decidemmo di passare proprio al teatro, con una compagnia nostra e con copioni scritti da noi. Debuttammo a Milano, all’Odeon. Ma chi ci conosceva? Le poltrone erano per metà vuote, però alla fine il pubblico urlava: “Viva Napoli”. Renato Simoni fece un lungo articolo e nei giorni seguenti tutte le file si riempirono. Cominciò la conquista del Nord».

Il più bel ricordo: «È nella mia città che ho provato la commozione più profonda. Fu alla prima di Napoli milionaria. C’era il fronte fermo a Firenze. C’era la fame e tanta gente disperata. Ottenni il San Carlo per una sera. I professori d’orchestra, per assistere allo spettacolo, si erano infilati nel golfo mistico. “Vedrete che ci diffamerà” diceva qualcuno allarmato dal titolo.

«Io facevo Gennaro Esposito, un povero e bravo uomo, che viene portato via dai tedeschi e quando ritorna trova un figlio ladro, la moglie che fa il mercato nero, si è arricchita, lo ha tradito, e la figlia ha fatto l’amore con un soldato americano.

«Sono dei cinici, ma Gennaro Esposito, con tolleranza, con comprensione, fa capire ai familiari che non è finito niente, che la vita continua. Recitavo e sentivo intorno a me un silenzio terribile. Quando dissi l’ultima battuta: “Deve passare la notte” e scese il pesante velario, ci fu silenzio ancora, per otto, dieci secondi, poi scoppiò un applauso furioso e anche un pianto irrefrenabile; tutti avevano in mano un fazzoletto, gli orchestrali si erano alzati in piedi, i macchinisti avevano invaso la scena, il pubblico era salito sul palcoscenico, tutti piangevano e anch’io piangevo, e piangeva Raffaele Viviani che era corso ad abbracciarmi. Io avevo detto il dolore di tutti».

Il suo mondo: «Napule è nu paese curioso/è nu teatro antico […] sempre apierto:/ce nasce gente ca senza cuncerto/ scenne p’ strade e sape recità».

 

 

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